Vi
inviamo un primo contributo alle riflessioni preliminari su “Arte e Stato” di
Raffaele Gavarro.
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ricordiamo che potete postare i vostri commenti e le vostre proposte sulla
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inviandole all’indirizzo consultarteroma@gmail.com.
Le ragioni per le quali
non possiamo ancora dirci europei e forse nemmeno più italiani
Naturalmente
le ragioni per le quali non possiamo ancora dirci europei sono molte: da quelle
etiche generali, a quelle politiche e amministrative, e in senso più ampio
burocratiche, fino all’organizzazione della scuola e dell’università, come
quelle relative alla cosiddetta amministrazione della giustizia.
Non
ultima, in questo elenco, è lo Stato di eccezionalità e marginalità a cui è
destinata, nel nostro Paese, la cultura contemporanea e l’Arte visiva nello
specifico. Un posto che appare ogni giorno più di confino, e che è la più
decisa, quanto meno visibile (forse), ragione della nostra sempre più grande
lontananza tanto dal presente degli altri paesi europei, quanto dalla nostra
storia. Proprio quest’ultima è la ragione per la quale appunto non possiamo nemmeno
più dirci italiani, almeno nella continuità di un passato che ha fatto della
cultura, di volta in volta contemporanea, il carattere emblematico della nostra
storia. E questo per secoli fino, e incredibilmente, al ventennio fascista.
Qualcosa
è infatti cambiato in modo drammatico nel rapporto tra Arte e Stato subito dopo
la fine del secondo conflitto mondiale e con la riorganizzazione dello Stato
democratico. Proprio quando le condizioni politiche e sociali, interne allo Stato
e internazionali, dovevano favorire e godere di un’ancora più necessaria
sincronia, si è perso il senso di questa necessità. A ben vedere si tratta di
un paradosso davvero difficile da comprendere nelle cause, anche se chiarissimo
nelle conseguenze. Cos’è che ha determinato questa sconnessione? Forse l’incapacità
di tenere insieme tutti gli aspetti determinati dal nuovo sviluppo economico,
con i conseguenti cambiamenti sociali e insieme ad un’organizzazione
democratica mai veramente compiuta, che tra poteri visibili e invisibili,
sempre particolari, ha smarrito il senso di una visione ampia e complessa? Molto
probabile. Anche se quello che appare oggi più che mai decisivo in questa perdita
di contatto, è la nostra evidente difficoltà a riconoscere gli elementi della
nostra attuale identità, alla quale fatalmente non riesce a dare sufficiente
soccorso una tradizione che appare svuotata sempre più di forza, proprio perché
avvertita come un passato senza continuità nel presente.
Ma
veniamo al punto e davvero all’oggi. Quanto detto sta facendo da retroterra,
background si direbbe, ad un affannoso e apparentemente logico progetto di
riposizionamento, da parte dello Stato, della nostra “contemporaneità culturale”
sul versante della rendita finanziaria e commerciale. Per dirla con Horkheimer e Adorno, e in ritardo di
circa settant’anni, si tratta di dare forma concreta e redditizia all’ “industria
culturale”, ma non come sarebbe immaginabile a quella propriamente
contemporanea, quanto invece a quella del mitico passato da meglio sfruttare
con un turismo che s’immagina ben più che di massa. Essere quindi
contemporanei, culturalmente in primis, per lo Stato attuale, è dare finalmente
una forma aziendale e un’organizzazione manageriale ai beni culturali. In altre
parole, il nostro “petrolio” ha bisogno di un raffinamento e di una rete di
distribuzione che sia appunto in linea con i sistemi contemporanei e che ci
permetta di competere sulla scena economica internazionale con un “nuovo”
prodotto.
Oltre
i limiti facilmente individuabili di una riduzione alla sfera commerciale della
complessità storico-scientifica dei beni culturali nazionali, e dando per
scontato la necessità di un loro efficientamento organizzativo e gestionale, quello
che colpisce è l’integrazione tout court del concetto di contemporaneità al
modello produttivo-finanziario. Come immaginare che sia possibile integrare in
questa visione il tempo e il prodotto non sempre spendibile della ricerca di
chi realizza un bene culturale contemporaneo? Un’impossibilità che impedisce
una vera comprensione delle modalità di sviluppo di un ben altro sistema
internazionale, tanto privato che degli Stati, che invece intorno alla ricerca
e alla produzione contemporanea concretizza un businnes, che è però il diretto
risultato di una reale consapevolezza culturale.
Siamo
così in una grave e inedita condizione d’impasse, che dallo Stato centrale si è
diffusa agli enti locali, e che sta creando cortocircuiti negativi tanto nella
gestione dei beni culturali antichi che in quelli contemporanei, e che per
entrambi non potrà che comportare un decadimento fisico e di senso.
E
proprio in questo deterioramento c’è la ragione della sempre maggiore distanza
dagli altri e da noi stessi.
Raffaele
Gavarro